“Un Paese in letargo, un letargo esistenziale collettivo”: così l’ultimo rapporto Censis definisce l’Italia, un Paese “dove non si alza lo sguardo verso il futuro, ma ci si accontenta del giorno per giorno”.
Tra le tante ombre presenti nell’annuale fotografia del Censis, una luce viene dal numero dei giovani lavoratori autonomi e dal loro desiderio di impegnarsi sulle frontiere dell’innovazione. Di qui la conclusione fortunatamente aperta alla speranza: “è la creatività, soprattutto la creatività, la carta per lo sviluppo”.
Una carta che dobbiamo giocare con il concorso di tutti, perché ci appartiene per vocazione naturale e per tradizione storica. Non si diceva fino a poco tempo fa che gli italiani sono tutti imprenditori? E che la loro migliore qualità era proprio la fantasia, l’estro, l’inventiva, la creatività? E non dicono questo l’arte e la cultura accumulate nei secoli e di cui c’è traccia in ogni luogo del nostro bel Paese?
Secondo Hegel, nella sua Logica, la quantità cambia la qualità.
Questo vale per la cultura. È tale e tanta la cultura che arricchisce la nostra storia e il nostro presente che essa – in positivo – dà forma alla nostra identità, in modo incomparabile rispetto ad altri luoghi e popoli. La cultura è il nostro volto nel mondo.
In negativo, la quantità è tale da comportare il rischio di trasformarla, nella coscienza degli italiani e di chi li governa, in merce senza preziosità. Provocando una specie di sazietà, il sentirsi già “imparati”, il non stupirsi più davanti alla bellezza.
Così il pericolo niente affatto remoto è di avere una massa enorme di beni culturali ed artistici, e di togliergli il respiro, soffocarli nella dimenticanza e nell’ovvio. La sazietà non crea nulla. Senza stupore la cultura muore. Senza stupore, si crede di poter vivere della rendita di cultura.
Ma la vita dei popoli dimostra che se la cultura non è coltivata, cioè non è cultura vivente, inaridisce. Se non è alimentata da nuovi innesti essa diventa reperto, ammuffisce, muore.
Ma non muore solo la cultura, senza cultura, senza desiderio, senza stupore muoiono i popoli, diventano vecchi, sprofondano nel nichilismo, per cui – secondo una celebre definizione data da Moravia della noia – “le cose non mi convincono della loro esistenza”.
Il compito della creatività è dunque fondamentale. Da una parte la creatività – lo dice l’etimologia – è far essere qualcosa dal nulla, dunque agisce a prescindere dal patrimonio ricevuto.
La storia però ci dice sì che la creatività fa nascere un fiore nuovo, mai visto prima, ma questo fiore nasce su un terreno coltivato, concimato dall’educazione degli occhi e della mente.
Un’educazione che passa dalla famiglia, dalla scuola, dai mezzi di comunicazione di massa (televisione e cinema inclusi, oltre che i social network). Educazione e istruzione basate non tanto su discorsi o testi prescrittivi: non da lì germina la creatività. Essa nasce per attrazione della bellezza.
Non per somma di erudizione. Come dicevano i latini “verba docent, exempla trahunt”: le parole insegnano, ma sono gli esempi, è la testimonianza a trascinare, ad attrarre.
Bisogna incontrare, frequentare, maestri-testimoni: sono colore che educano lo sguardo allo stupore perché l’hanno sperimentato e lo sperimentano.
Per fortuna in Italia, e lo abbiamo visto nell’ultimo secolo, ci sono stati grandi maestri che hanno impedito che ci addormentassimo sulla cultura, ma hanno generato nuova bellezza e vere e proprie scuole di creatività.
Penso al cinema, all’architettura, alla poesia, alla pittura, ma – perché no – anche alla scienza, anch’essa esige creatività. Da Pirandello a Svevo a Ungaretti a Montanelli ed Eco, da Sironi a Morandi a Guttuso, da Piacentini a Nervi a Piano, da Mascagni ad Abbado a Muti, da Segre a Natta a Rubbia.
La creatività e la bellezza nascono da solidi studi e sudate carte, ma al cuore e alla mente parla la nostra identità che si incarna e prende il volto della cultura.
Il ruolo della cultura e della creatività nel nostro Paese. Una è figlia dell’altra. Il segreto perché entrambe crescano sta nell’educazione e nella scuola.
Gianni Letta